La precarietà esistenziale come identità sociale: una operazione ideologica

pillole di analisi sociologica per tutti voi allevati da Mike Bongiorno, pigri di testa e ben vestiti

 

di Filippo Viola. Professore di Sociologia, Fac. di Sociologia,
Univ. “La Sapienza” 

Premessa
Sulla soggettività
sociale incombe una complessa operazione ideologica
. A partire da
ben noti processi in atto, dalla destabilizzazione del rapporto di
lavoro alla disarticolazione della vita sociale, si tenta di
innescare una prospettiva inquietante: “sradicare” dalla
coscienza collettiva la vecchia identità connotata dalla stabilità
della prospettiva di vita, per “trapiantarvi” una identità di
nuovo conio, che si riconosca nella condizione di precarietà
esistenziale.

 

1. La ridefinizione della
identità sociale

Nel quadro dei processi di produzione
ormai giunti a maturazione, l’identità sociale è chiamata a
misurarsi con la condizione di precarietà. Su questo versante,
risulta completamente spiazzata una identità sociale ancora legata
al mondo della stabilità del lavoro e del sistema di garanzie. C’è
quindi il rischio che i soggetti vivano la nuova realtà con la
testa rivolta al passato e in una condizione di forte tensione
esistenziale, che potrebbe tradursi in opposizione sociale. Da qui la
necessità di riallineare l’identità sociale alla instabilità del
lavoro
, in modo che i soggetti si riconoscano nella loro mutata
condizione esistenziale, caratterizzata dalla precarietà. In questa
logica perversa, il modello di soggettività che meglio si attaglia
al sistema avanzato di produzione ha un connotato di base: la
precarietà esistenziale come identità sociale
. Attenzione. Non
più una identità in conflitto latente con la condizione di
precarietà. Ma la condizione di precarietà che si incarna
direttamente nella identità sociale e determina l’essere al mondo
delle persone. In concreto, l’inquietante prospettiva che si tenta
di aprire va oltre l’attuale realtà, di per sé devastante, in cui
le nuove generazioni non sono in grado di progettare il proprio
futuro. Si mira ad un essere sociale in cui i giovani, a forza di
vivere in condizione di incertezza, siano indotti a immaginare il
loro futuro in termini di precarietà esistenziale. Bisogna cercare
di cogliere bene la cifra di questo passaggio. Ci dobbiamo chiedere:
una volta operata l’istituzionalizzazione della instabilità del
lavoro, che si traduce inevitabilmente in precarietà esistenziale,
perché si può avere interesse a proiettare questa condizione sulla
identità sociale? La risposta è semplice: perché si vuole che i
soggetti si sentano realizzati nella condizione di instabilità. In
pratica, si vuole fare emergere una soggettività collettiva,
soprattutto giovanile, che veda nel lavoro discontinuo non la fonte
della propria condanna alla marginalità sociale, ma anzi la
possibilità di scegliere ogni volta tra le alternative che offre il
mercato e di arricchire, per questa via, il proprio bagaglio
esperienziale.

2, Il modello ideologico:
la distinzione tra flessibilità e precarietà

Il
tentativo di acquisire la precarietà alla coscienza collettiva si
avvale di un modello ideologico, incentrato sulla distinzione tra
flessibilità e precarietà. Modello fatto proprio dalla sinistra
istituzionale e dai vertici dei sindacati confederali. La
flessibilità, si dice, è un dato strutturale del processo avanzato
di produzione. Ma, di per sé, non comporta precarietà. Basta
adottare gli opportuni ammortizzatori sociali, che assicurino la
sopravvivenza nei periodi in cui si viene a mancare dei mezzi di
sussistenza. Per questa via, si tende a istituzionalizzare la
precarietà come modalità tecnica del processo avanzato di
produzione
. Ora, come si fa a sostenere che l’alternarsi di
lavoro e non lavoro, vale a dire un continuo movimento sismico della
vita quotidiana, non provoca precarietà esistenziale? È irrilevante
sentirsi alternativamente soggetto attivo e relitto sociale, al
minimo della sussistenza? Ed è irrilevante, sul piano banalmente
contabile, non potere pianificare le proprie striminzite spese? Come
si fa a tenere fede agli impegni finanziari sottoscritti (l’affitto
mensile dell’alloggio, la rata di mutuo della macchina, ecc.)
quando, da un giorno all’altro, la già misera entrata viene
ridotta drasticamente, nel passaggio dal salario alla indennità di
disoccupazione? Nel quadro qui presentato per tratti essenziali,
l’istituzionalizzazione della precarietà esistenziale, sulla
base della ridefinizione della identità sociale, tende a restringere
i già sottili margini di autonomia della società nei confronti
della valorizzazione capitalistica. Il capitale tenta così di
spostare in avanti il suo dominio sulla esistenza di masse di uomini
e donne. È bene che le forze di opposizione antagonista ne tengano
conto.

3, Due conferme dell’operazione
ideologica

Per concludere, mi limito a riportare due
conferme dell’operazione ideologica in corso. Il Corriere della
Sera (19/03/07, p. 7) pubblica l’annuncio, ben evidenziato, di un
convegno di alto profilo. Il testo è un vero e proprio manifesto:
“Tutti felicemente flessibili, in coerenza con una economia in
rapido mutamento in cui l’elasticità dei rapporti di lavoro
consente ai singoli di accumulare nuove competenze e, in prospettiva,
di ottenere maggiori guadagni rispetto al vecchio posto fisso”.
Attenzione: non solo flessibili, ma felicemente flessibili. E quindi
indotti a identificarsi nella loro condizione di precarietà. Su una
copertina di Panorama (n. 52 del 26/12/07) campeggia la foto di una
giovane donna seduta al suo tavolo di lavoro. A fianco una grossa
scritta: “Vi sembro precaria?”. In effetti, è l’immagine di
una persona soddisfatta del suo lavoro. La didascalia è ancora più
esplicita: “Storie di chi con il contratto a termine ha imparato a
vivere bene”. E nell’interno si leggono le note vicissitudini del
lavoro instabile, ma raccontate in chiave di “felici di essere
precari”. Ecco l’identità sociale che si vuole prospettare: una
incarnazione della precarietà esistenziale.

 

 

Premessa
Sulla soggettività
sociale incombe una complessa operazione ideologica
. A partire da
ben noti processi in atto, dalla destabilizzazione del rapporto di
lavoro alla disarticolazione della vita sociale, si tenta di
innescare una prospettiva inquietante: “sradicare” dalla
coscienza collettiva la vecchia identità connotata dalla stabilità
della prospettiva di vita, per “trapiantarvi” una identità di
nuovo conio, che si riconosca nella condizione di precarietà
esistenziale.

1. La ridefinizione della
identità sociale

Nel quadro dei processi di produzione
ormai giunti a maturazione, l’identità sociale è chiamata a
misurarsi con la condizione di precarietà. Su questo versante,
risulta completamente spiazzata una identità sociale ancora legata
al mondo della stabilità del lavoro e del sistema di garanzie. C’è
quindi il rischio che i soggetti vivano la nuova realtà con la
testa rivolta al passato e in una condizione di forte tensione
esistenziale, che potrebbe tradursi in opposizione sociale. Da qui la
necessità di riallineare l’identità sociale alla instabilità del
lavoro
, in modo che i soggetti si riconoscano nella loro mutata
condizione esistenziale, caratterizzata dalla precarietà. In questa
logica perversa, il modello di soggettività che meglio si attaglia
al sistema avanzato di produzione ha un connotato di base: la
precarietà esistenziale come identità sociale
. Attenzione. Non
più una identità in conflitto latente con la condizione di
precarietà. Ma la condizione di precarietà che si incarna
direttamente nella identità sociale e determina l’essere al mondo
delle persone. In concreto, l’inquietante prospettiva che si tenta
di aprire va oltre l’attuale realtà, di per sé devastante, in cui
le nuove generazioni non sono in grado di progettare il proprio
futuro. Si mira ad un essere sociale in cui i giovani, a forza di
vivere in condizione di incertezza, siano indotti a immaginare il
loro futuro in termini di precarietà esistenziale. Bisogna cercare
di cogliere bene la cifra di questo passaggio. Ci dobbiamo chiedere:
una volta operata l’istituzionalizzazione della instabilità del
lavoro, che si traduce inevitabilmente in precarietà esistenziale,
perché si può avere interesse a proiettare questa condizione sulla
identità sociale? La risposta è semplice: perché si vuole che i
soggetti si sentano realizzati nella condizione di instabilità. In
pratica, si vuole fare emergere una soggettività collettiva,
soprattutto giovanile, che veda nel lavoro discontinuo non la fonte
della propria condanna alla marginalità sociale, ma anzi la
possibilità di scegliere ogni volta tra le alternative che offre il
mercato e di arricchire, per questa via, il proprio bagaglio
esperienziale.

2, Il modello ideologico:
la distinzione tra flessibilità e precarietà

Il
tentativo di acquisire la precarietà alla coscienza collettiva si
avvale di un modello ideologico, incentrato sulla distinzione tra
flessibilità e precarietà. Modello fatto proprio dalla sinistra
istituzionale e dai vertici dei sindacati confederali. La
flessibilità, si dice, è un dato strutturale del processo avanzato
di produzione. Ma, di per sé, non comporta precarietà. Basta
adottare gli opportuni ammortizzatori sociali, che assicurino la
sopravvivenza nei periodi in cui si viene a mancare dei mezzi di
sussistenza. Per questa via, si tende a istituzionalizzare la
precarietà come modalità tecnica del processo avanzato di
produzione
. Ora, come si fa a sostenere che l’alternarsi di
lavoro e non lavoro, vale a dire un continuo movimento sismico della
vita quotidiana, non provoca precarietà esistenziale? È irrilevante
sentirsi alternativamente soggetto attivo e relitto sociale, al
minimo della sussistenza? Ed è irrilevante, sul piano banalmente
contabile, non potere pianificare le proprie striminzite spese? Come
si fa a tenere fede agli impegni finanziari sottoscritti (l’affitto
mensile dell’alloggio, la rata di mutuo della macchina, ecc.)
quando, da un giorno all’altro, la già misera entrata viene
ridotta drasticamente, nel passaggio dal salario alla indennità di
disoccupazione? Nel quadro qui presentato per tratti essenziali,
l’istituzionalizzazione della precarietà esistenziale, sulla
base della ridefinizione della identità sociale, tende a restringere
i già sottili margini di autonomia della società nei confronti
della valorizzazione capitalistica. Il capitale tenta così di
spostare in avanti il suo dominio sulla esistenza di masse di uomini
e donne. È bene che le forze di opposizione antagonista ne tengano
conto.

3, Due conferme dell’operazione
ideologica

Per concludere, mi limito a riportare due
conferme dell’operazione ideologica in corso. Il Corriere della
Sera (19/03/07, p. 7) pubblica l’annuncio, ben evidenziato, di un
convegno di alto profilo. Il testo è un vero e proprio manifesto:
“Tutti felicemente flessibili, in coerenza con una economia in
rapido mutamento in cui l’elasticità dei rapporti di lavoro
consente ai singoli di accumulare nuove competenze e, in prospettiva,
di ottenere maggiori guadagni rispetto al vecchio posto fisso”.
Attenzione: non solo flessibili, ma felicemente flessibili. E quindi
indotti a identificarsi nella loro condizione di precarietà. Su una
copertina di Panorama (n. 52 del 26/12/07) campeggia la foto di una
giovane donna seduta al suo tavolo di lavoro. A fianco una grossa
scritta: “Vi sembro precaria?”. In effetti, è l’immagine di
una persona soddisfatta del suo lavoro. La didascalia è ancora più
esplicita: “Storie di chi con il contratto a termine ha imparato a
vivere bene”. E nell’interno si leggono le note vicissitudini del
lavoro instabile, ma raccontate in chiave di “felici di essere
precari”. Ecco l’identità sociale che si vuole prospettare: una
incarnazione della precarietà esistenziale.

 

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